
Mercoledì 7 giugno alle ore 21,15 nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria avrà luogo il Diciottesimo Concerto Annuale del Coro dell’Università di Pisa, nell’ambito delle manifestazioni del Giugno Pisano. Il coro si esibirà insieme alla Tuscan Chamber Orchestra. Programma
Franz Schubert: Magnificat D486 e Stabat Mater D383
Coro dell'università - Tuscan Chamber Orchestra
Soprano Sonia Ciani
Contralto Sara Bacchelli
Tenore Artemy Nagy
Baritono Michele Pierleoni
Direttore Stefano Barandoni
Introduzionedi Maria Antonella Galanti
Coordinatrice del Centro di Ateneo per la diffusione della cultura e della pratica musicale
Il Magnificat e lo Stabat Mater di Franz Schubert, basati entrambi sull’alternarsi di coro e solisti e, dunque, sull’irrompere di parti più liriche e sul dialogo costante tra aspetti drammatici e altri di esultazione – a carattere festoso nel primo componimento e di speranza nel secondo - sono praticamente coevi, composti nel 1815 e nel 1816.
In entrambi i casi il musicista, come già in altre sue composizioni sacre, ricorre a trasformazioni e tagli del testo tradizionale. Nel Magnificat, ripreso dal Vangelo di Luca, omette alcuni versetti, mentre nello Stabat Mater utilizza una parafrasi della sequenza latina a opera del poeta Friedrich Gottlieb Klopstock. Nel testo tedesco, quasi in simbiosi con la musica, emerge la ricerca del contrasto tra la luce e la notte, tra il chiaro e lo scuro, tra il sentimento del dolore e la possibilità di risollevarsene, tra il piano e il pianissimo del sussurro timoroso e dell’invocazione accorata e il forte dell’affermare una speranza di riscatto, tra il movimento circolare e ricorsivo del tempo psichico e quello dato dal rincorrersi contrappuntistico delle voci.
Quello di Schubert, del resto, è uno Stabat Mater lancinante e dolente, ma espressione del confronto di un laico con la spiritualità e con il divino che va anche oltre i confini della chiesa cattolica e riguarda tensioni e inquietudini capaci di affratellare credenti e non credenti.
Il repentino irrompere, poetico e musicale, di toni quasi festosi e proprio in mezzo al dolore, è ciò che differenzia lo Stabat Mater di Schubert rispetto a quelli legati più saldamente alla tradizione. Una tradizione destinata a effondersi in innumerevoli scritture di varie epoche e di autori molto diversi l’uno dall’altro, segnata da alterne vicissitudini relative anche all’uso liturgico o meno del brano; uso non previsto nella predestinazione originaria, ma introdotto in tempi successivi e poi di nuovo varie volte dismesso.
In questo Stabat Mater l’alternarsi della gioia e della speranza alle lacrime e ai singhiozzi è sottolineato proprio dalle parole che non si ritrovano nel testo tradizionale e che fanno di quello di Klopstock una vera e propria riscrittura. A un certo punto, infatti, dopo che la voce solista del soprano ci dice dell’anima spaventata e straziata di Maria, il coro racconta il momento in cui il figlio morente si rivolge a lei, che sta per perderlo, e a Giovanni, per legarli l’uno all’altra e l’incipit di questo brano sottolinea che lo fa con dolcezza. Il canto del coro è ora molto tenero, leggero come quello di una ninna nanna, mentre amorevolmente Gesù dice: “Tu sei la madre di questo figlio! E tu sei il figlio di questa madre”. Subito dopo il duetto tra tenore e soprano ci parla di angeli che gioiscono, di lacrime che vengono asciugate, di un possibile rallegrarsi catartico e collettivo. E così, più avanti ancora, dopo la parte tradizionale e comune allo Stabat Mater originario, del condividere con la madre il suo dolore che diventa il dolore di tutti, di nuovo musica e parole si trasfigurano. Il coro, infatti, canta dapprima l’impossibilità del non piangere e del non ammutolire di fronte alla morte, ma subito dopo quella opposta: l’impossibilità di non allietarsi di fronte a un messaggio di speranza.
La dimensione drammatica dello Stabat Mater di Schubert riposa nel contrasto tra i toni gravi e profondi del dolore e quelli lievi, leggeri, alti e altrettanto consapevoli e profondi della gioia. Il punto focale della drammaticità, però, non è più la sola Maria, la madre addolorata e dolente. La prima immagine che viene evocata, infatti, è quella del figlio che pende dalla croce e non quella della madre che è ai suoi piedi. Forse, però, potremmo dire che il focus non è né sull’uno né sull’altra, ma sulla loro relazione. Noi guardiamo Gesù che muore attraverso il filtro dello sguardo di Maria che diventa una cosa sola con il nostro sguardo, rendendoci possibile una compenetrazione identificativa ancora più intensa perché di fronte al Pendebat Filius ci sentiamo madri, indipendentemente dall’essere uomini o donne, per lo sconforto sbigottito che ci genera la morte innocente.
Stabat Mater, Pendebat Filius. L’imperfetto allude sempre all’indefinito e all’indeterminato, a ciò che non è né solo passato, né solo presente, ma travalica il tempo spazializzato legato alla successione cronologica degli eventi per porsi nella dimensione di quello interiore, dove nessuna delle nostre esperienze è perduta per sempre, neanche di fronte all’inesorabilità della morte. Si tratta di un’indefinitezza temporale che ben si lega a quella dell’immagine che abbiamo scelto per la locandina: la Pietà Rondanini, una delle ultime opere alle quali Michelangelo, ormai ottantenne, ha lavorato. La scultura, in analogia allo Stabat Mater di Schubert, si incentra sulla relazione tra la madre e il figlio. Nella scelta della verticalità le due figure sembrano quasi fondersi l’una nel corpo dell’altra, generando a livello emozionale un effetto tanto più intenso e straziante, perché l’abbraccio che non può trovare reciprocità, quello tra un corpo vivo e un altro morto, nello stesso tempo sembra invece adombrare, dolorosamente e teneramente, la fusionalità madre-figlio dell’attesa e del momento della nascita.
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